De provinciis consularibus

Titolo: De provinciis consularibus
Tipo opera: Cicerone - I - Opere
Descrizione: La datazione del discorso è incerta, ma si possono stabilire i termini post quem e ante quem con relativa sicurezza. In De prov. 14 Cicerone allude alla seduta del senato del 15 maggio 56 in cui era stata negata a Gabinio la supplicatio per la vittoria contro il re ribelle di Giudea Aristobulo e il figlio Alessandro (vedi anche Q. fr. 2, 7, 1). Cicerone immagina che il responso del senato sarebbe giunto a Gabinio paucis diebus e, siccome per raggiungere la Siria erano necessarie almeno quattro o cinque settimane, possiamo pensare che il discorso si sia tenuto verso fine giugno. Questa datazione si adatta perfettamente con il terminus ante quem, ovvero la presentazione delle candidature dei consoli, fissata diciassette giorni prima delle elezioni, che si tenevano a luglio. Secondo la già citata Lex Sempronia, l’assegnazione delle province ai consoli doveva avvenire prima di questa data, per evitare pressioni indebite sui senatori da parte dei nuovi eletti. [Gianmario Cattaneo]
Parole chiave: Éloquence - Eloquenza - Eloquence, Histoire - Storia - History, Politique - Politica - Politics
Riferimenti storici:

Per comprendere le ragioni che nel 56 spinsero Cicerone a pronunciare in senato l’oratio de provinciis consularibus è necessario partire dall’anno del consolato di Cesare, ovvero il 59. Il triumviro, nel maggio di quell’anno, aveva aggiunto una sorta di appendice alla sua riforma agraria, appendice nota come Lex Campana. Essa prevedeva la ridistribuzione dell’ager publicus della Campania centro-settentrionale tra i cittadini romani, con precedenza per i veterani di Pompeo e gli indigenti con tre o più figli. La legge fu approvata, ma non fu mai concretamente applicata e il senato discusse di questo provvedimento anche negli anni successivi.
Il problema risorse il 5 aprile 56, quando (Cic. Q. fr. 2, 6, 1): vehementer actum de agro Campano clamore senatus prope concionali: acriorem causam inopia pecuniae faciebat et annonae caritas «si è svolta una discussione dai toni molto accesi sulla lottizzazione delle terre della Campania, mentre gli urli, in senato, si levavano alti quasi al pari di quelli che si odono nelle assemblee popolari. Le ristrettezze finanziarie e il prezzo esorbitante del frumento creano maggior accanimento negli interventi politici» (trad. C. Di Spigno). Anche in questa seduta, però, non si giunse a votazione e il dibattito fu rinviato al 15 maggio (Cic. Q. fr. 2, 7, 1).
Cicerone, il quale si opponeva strenuamente alla riforma cesariana, tra il 7 e l’8 aprile si incontrò con Pompeo, a cui chiese il ritorno a Roma del fratello Quinto, legatus in Sardegna. Prima di raggiungere l’isola, Pompeo si riunì gli altri triumviri a Lucca, dove, secondo Cicerone (Fam. 1, 9, 9), Cesare si sarebbe lamentato dei continui attacchi rivolti dall’Arpinate alla sua persona. Giunto in Sardegna, Pompeo non solo fece pressioni su Quinto affinché convincesse il fratello a smorzare i toni, ma inviò anche a Cicerone, tramite Lucio Vibullio Rufo, l’ingiunzione di lasciare impregiudicato il problema dell’ager Campanus fino al suo ritorno a Roma.
Osteggiato dai triumviri, Cicerone non poté far altro che ammettere la propria resa (Q. fr. 2, 7, 2: Aberam autem quod Idibus et postridie fuerat dictum de agro Campano actum iri, ut non est actum: in hac causa mihi aqua haeret. «Invece io ero assente, poiché era stato fissato l’ordine dei lavori nel senso che nel giorno delle Idi e in quello successivo sarebbe stato trattato il problema della lottizzazione delle terre in Campania; effettivamente la discussione in merito ha avuto luogo. Su questo tema specifico l’acqua della clessidra è per me ferma»; trad. C. Di Spigno). Invero, Cicerone non si limitò a porre fine ai suoi attacchi contro Cesare, ma iniziò anche ad assecondare la sua politica (Att. 4, 5, 1-3, in cui si fa riferimento ad una subturpicula palinodia rivolta da Cicerone a Cesare).
Nel convegno di Lucca, i triumviri si erano accordati su due punti: innanzitutto, Pompeo e Crasso si sarebbero presentati per il consolato del 55 contro Lucio Domizio Enobarbo, il quale prometteva di revocare a Cesare il governo delle Gallie prima della fine del quinquennio a lui assegnato dalla Lex Vatinia del 59; poi, Cesare sarebbe rimasto in Gallia per altri cinque anni, a lui sarebbero stati attribuiti altri dieci legati e lo stato avrebbe garantito alle sue legioni gli stipendi arretrati.
Nella De provinciis consularibus Cicerone si concentra soprattutto su questo secondo punto. Secondo la Lex Sempronia de provinciis consularibus del 123, prima dell’elezione dei consoli dell’anno venturo il senato doveva accordarsi sulle province da assegnare ai consoli al termine del loro mandato. Le province che potevano essere assegnate ai consoli del 55 erano le due Gallie, la Macedonia e la Siria. Mentre alcuni senatori volevano che fossero assegnate le due Gallie (o almeno una delle due), Cicerone sostenne la proposta del consolare Publio Servilio Vazia Isaurico, console nel 79, il quale aveva suggerito l’assegnazione di Siria e Macedonia (De prov. 1-3). In questo modo, Cesare avrebbe potuto continuare ad esercitare il proconsolato sulle Gallie.
A sostegno della proposta di Publio Servilio, Cicerone dimostra l’inettitudine dei due proconsoli che allora governavano Siria e Macedonia, Lucio Calpurnio Pisone Cesonino e Aulo Gabinio, i consoli che nel 58 avevano favorito l’esilio dello stesso Cicerone. In Macedonia, Pisone si era reso colpevole di una politica fiscale oppressiva e di furti nei confronti del patrimonio di città come Bisanzio (De prov. 3-8). Gabinio, invece, non solo si era macchiato di ruberie, ma aveva addirittura osato chiedere al senato una supplicatio in onore delle sue imprese, richiesta che era stata respinta (De prov. 9-17). Cicerone aggiunge: Quodsi essent illi optimi viri, tamen ego mea sententia C.Caesari succedendum nondum putarem «E quando pure essi fossero i migliori degli uomini, io, a parer mio, non riterrei ancora opportuno sostituire Gaio Cesare» (De prov. 18; trad. G. Bellardi).
Cicerone afferma di parlare per il bene comune e di non badare al suo risentimento personale e cita altri casi celebri in cui uomini illustri rinunciarono alle inimicizie private per il bene dello stato (Tiberio Gracco padre; Lucio Licinio Crasso l’oratore e Marco Emilio Scauro; Marco Lepido). Conclude: Quod volent denique homines existiment, nemini ego possum esse bene merenti de re publica non amicus «Per concludere, si pensi pure quello che si vorrà: personalmente, m’è impossibile non essere amico di chi è benemerito della repubblica» (De prov. 24; trad. G. Bellardi). Egli dice anche di aver sostenuto altri provvedimenti in onore di Cesare, come una supplicatio di quindici giorni per le sue campagne del 58-57, e di aver appoggiato le sue richieste per i dieci legati e per la paga dell’esercito (De prov. 25-29).
L’oratore ritorna poi sull’assegnazione delle province, lodando innanzitutto Cesare per le sue imprese in Gallia (De prov. 29-35). In seguito, confuta le proposte di chi voleva assegnare ai consoli, insieme alla Siria, la Gallia Cisalpina o la Transalpina (De prov. 36-39). Segue la spiegazione da parte dell’Arpinate dei suoi rapporti con Cesare, dalla nascita del primo triumvirato al consolato di Gabinio e Pisone, il tribunato di Clodio e l’esilio (De prov. 40-44). L’attacco più feroce è rivolto a Clodio, patrizio che divenne plebeo solo per poter distruggere la Repubblica in qualità di tribuno della plebe (De prov. 45-46). Chiude il discorso la peroratio nei confronti dei senatori (De prov. 47).

[Gianmario Cattaneo]


Cronologia: A 56 [Act . Pol.]   De provinciis consularibus Cicerone sostenne la proposta del consolare Publio Servilio Vazia Isaurico, console nel 79, il quale aveva suggerito l’assegnazione di Siria e Macedonia (De prov. 1-3). In questo modo, Cesare avrebbe potuto continuare ad esercitare il proconsolato sulle Gallie. [Gianmario Cattaneo]
Bibliografie: