Tipo opera: Cicerone - I - Opere
Descrizione: Discorso databile tra il settembre e l'ottobre del 46 a.C., tenuto da Cicerone davanti al senato per ringraziare Cesare di avere concesso a Marco Claudio Marcello, da anni uno dei suoi più ostinati oppositori di parte pompeiana ed esponente di spicco della nobiltà romana, la grazia e la possibilità con essa di tornare a Roma dall'esilio volontario a Mitilene, dove Marcello si era ritirato dopo la disfatta di Pompeo e del suo esercito a Farsalo il 9 agosto del 48 a.C. In più occasioni, come testimoniano alcune lettere della raccolta Ad familiares (cfr. fam. 4,7,3-6; 4,8,2; 4,9; 4,10), Cicerone aveva cercato di convincere Marcello a mitigare le sue rigide posizioni sia riguardo alla decisione di rimanere in esilio, sdegnoso di ogni possibile grazia concessagli da Cesare, sia riguardo alla sua intransigente opposizione nei confronti del dittatore stesso, tutto questo per creare le condizioni favorevoli al rientro di Marcello a Roma. [Fausto Pagnotta] L'orazione è definita nei codici Pro Marcello (quindi come un discorso giudiziario). In realtà, trattandosi di un intervento in senato, la sua denominazione esatta dovrebbe essere De Marcello
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Riferimenti storici:
L’importanza politica per Cicerone di riavere a Roma Marcello la si può dedurre da alcuni passi di due lettere scritte a Marcello tra l’agosto e il settembre del 46 a.C., fam. 4,8 e fam. 4,9, infatti in fam. 4,8,2 Cicerone invita Marcello, pur tenendo conto delle mutate circostanze politiche, a ridare alla Res publica la sua fondamentale presenza e a riprendersi di fronte al giudizio degli uomini un ruolo di primo piano, ut, quod ego facio, tu quoque animum inducas, si sit aliqua res publica, in ea te esse oportere iudicio hominum reque principem, necessitate cedentem tempori. Un accorato appello per richiamare Marcello alla patria
in linea con le parole di fam. 4,9,3 dove Cicerone afferma che alla patria, sebbene abbruttita (chiaro il richiamo alla dittatura di Cesare e all’esito della guerra civile), Marcello non deve far mancare il proprio
amore, nunc vero nec locus tibi nullus dulcior esse debet patria nec eam diligere minus debes quod deformior est, piuttosto ne deve avere pietà e ad essa non deve far mancare la propria presenza, sed misereri potius nec eam multis claris viris orbatam privare etiam aspecto tuo. Parole difficili da comprendere nel loro significato separandole da un contenuto politico dal quale emerge l’utilità politica per Cicerone del rientro di Marcello a Roma.
In questo contesto ha origine la Pro Marco Marcello oratio che innanzitutto rappresenta per Cicerone l’occasione, dopo un lungo silenzio, per riprendere la parola in senato proprio davanti a Cesare, ed esprimere così le sue intenzioni e il suo pensiero (Marc. 1). Fin da subito Cicerone accomuna la sua persona a quella di Marcello, il cui ritorno in patria, concesso da Cesare sulla richiesta del cugino C. Marcello e dell’intero senato unanime ad eccezione di Volcacio, permette a lui e a Marcello di recuperare vocem et auctoritatem e di nutrire qualche segnale di speranza per il bene della Res publica (Marc. 2). Con maestria retorica, Cicerone, stabilendo un parallelismo tra la grande lode da ascriversi a chi concede la grazia, e la gloria che merita la persona che la riceve, pone di fatto, per dignitas, sullo stesso piano Cesare e Marcello (Marc. 3), il cui reintegro è sì dovuto alla clemenza del dittatore, ma principalmente è dovuto merito atque optimo iure (Marc. 4) per la nobile origine familiare di Marcello (nobilitas), e soprattutto per le sue virtutes personali (probitas, optimarum artium studium, innocentia). Alla lode, moderata ma incisiva, per Marcello, l’Arpinate fa seguire quella per Cesare, incentrata sul concetto di clementia. Come afferma Cicerone, Cesare si è fregiato di innumerevoli meriti militari grazie alle sue molteplici vittorie in guerra (Marc. 5), ma se nelle vittorie belliche una parte di merito la rivendica la Fortuna (Marc. 6), nella sua decisione di concedere la grazia a Marcello tutto il merito non è da ricondurre a nessun altro se non a Cesare stesso ed al suo consilium (Marc. 7). Proprio dal paragrafo 7 Cicerone inizia il ritratto di Cesare che lo accompagnerà per tutta l’orazione, attribuendogli alcune delle caratteristiche proprie di quel princeps inter pares da lui in passato più volte vagheggiato nel De re publica. Per Cicerone infatti chi è capace, come Cesare nel caso di Marcello, di animum vincere, iracundiam cohibere, victo temperare, adversarium nobilitate, ingenio, virtute praestantem non modo extollere iacentem, sed etiam amplificare eius pristinam dignitatem, si deve considerare alla pari non dei più grandi uomini, ma simile a un dio (Marc. 8). Chi si rende protagonista di imprese clementer, mansuete, iuste, moderate, sapienter, merita i più grandi apprezzamenti ed onori (Marc. 9). Laudes, studia e benevolentia saranno per Cesare se manterrà salvo ciò che la guerra civile ha lasciato intatto della Res publica (Marc. 10). La iustitia e la lenitas dimostrate da Cesare nei riguardi di Marcello fioriranno ogni giorno di più (Marc. 11). L’aequitas e la clementia per i vinti, rendono Cesare vittorioso sulla stessa vittoria, avendo egli vinto la forza spietata che la vittoria pone nelle mani del vincitore sulla sorte degli sconfitti (Marc. 12). Ed è proprio a questo punto che Cicerone inizia ad
esporre il suo giudizio sulla guerra civile, in particolare sulla sua personale condotta e su quella dei pompeiani, le cui scelte non sono da attribuire a scelus, che li condannerebbe come traditori, ma ad un error humanus, per questo, a detta dell’Arpinate, Cesare ha riammesso nella curia non degli hostes, ma persone che avevano intrapreso la guerra contro di lui ignoratione potius et falso atque inani metu quam cupiditate aut crudelitate (Marc. 13). Cicerone descrive la propria azione di uomo portatore di pace anche durante la guerra civile, e se ha scelto, come afferma, Pompeo e la parte repubblicana, lo ha fatto per privato officio, non publico, senza alcuna ambizione né speranza di successo (Marc. 14). L’occasione della riabilitazione di Marcello è colta da Cicerone per riabilitare con queste parole anche la sua persona agli occhi di Cesare, ponendosi nelle stesse intenzioni del dittatore, poiché anch’egli avrebbe preferito non dimicare quam vincere (Marc. 15). Una volontà di pace e di pacificazione che
Cicerone attribuisce anche a Marcello (Marc. 16) e che si
riconosce nella politica di Cesare basata sulla clementia, non certo nelle intenzioni di alcuni facinorosi pompeiani nel caso avessero vinto (Marc. 17): questo a significare che, nonostante i diversi schieramenti, nelle intenzioni di pace, Cicerone e Marcello erano più vicini a Cesare che alla loro parte pompeiana. Persino gli dei immortali per Cicerone ripongono la loro speranza per Roma nella clementia di Cesare vincitore (Marc. 18) del quale l’Arpinate fa seguire un ritratto encomiastico (Marc. 19) che sfocia nell’invito a Cesare a graziare tutti coloro che per opinione offici stulta … certe non inproba, hanno intrapreso la guerra contro di lui (Marc. 20).
Dal paragrafo 21, nella seconda parte dell’orazione, Cicerone passa a trattare del sospetto che aveva Cesare di subire un attentato proprio da coloro che la sua clementia aveva graziato. L’Arpinate ha la speranza che si tratti di un timore infondato, tuttavia garantisce a Cesare che non lo sottovaluterà mai, poiché dalla sua salvezza dipende quella di tutti, tua enim cautio nostra cautio est, e lo rassicura che non esistono più avversari e quelli che lo furono ora sono amicissimi (Marc. 21). Per la salvezza di Cesare Cicerone afferma che sarà aumentato il numero di coloro che devono vigilare sulla sua vita, alla quale è legata la salvezza della Res publica. Un concetto questo a cui Cicerone fa seguire con fine abilità retorica la sua personale constatazione della debolezza e precarietà di quello Stato che si regge su un sistema politico che ha la sua salvezza in unius mortalis anima (Marc. 22). Ma proprio dopo questo passaggio Cicerone, riconoscendo a Cesare il compito di risollevare la Res publica, lo responsabilizza nei confronti della salvaguardia dello Stato e della sopravvivenza delle sue istituzioni: è solo Cesare che deve curare lo Stato dalle ferite della guerra civile (Marc. 23-24). Per questo motivo, secondo Cicerone, Cesare non deve affermare satis diu vel naturae vixi vel gloriae, poiché la patria, nella sua riorganizzazione dopo la guerra civile, ha bisogno di lui (Marc. 25), al quale spetta la vera gloria solo se risolleverà le istituzioni della Res publica (Marc. 26), ut rem publicam constituas (Marc. 27). Lodevoli sì i successi nelle imprese militari di cui si è fregiato Cesare (Marc. 28), ma la gloria più autentica e duratura anche nei confronti dei posteri, ascrivibile solo a sé stesso e non alla Fortuna, Cesare la
potrà ottenere solo se, con il suo consilium, ricostruirà e
riorganizzerà in modo stabile la Res publica, spegnendo l’incendio della guerra civile e donando così la salvezza alla patria (Marc. 29). Cicerone ricorda come durante la guerra civile i cittadini della stessa patria fossero divisi tra loro sia nelle idee e nelle passioni sia nelle armi e negli eserciti (Marc. 30). A Cesare spetta il merito di essere stato equanime e di non aver ceduto all’odio nei confronti dei vinti, infatti, secondo l’Arpinate, vicit is, qui non fortuna inflammaret odium suum, sed bonitate leniret, neque omnes, quibus iratus esset, eosdem etiam exsilio aut morte dignos iudicaret: proprio per questo, si mostra ingrato colui che, graziato da Cesare, animum tamen retinet armatum (Marc. 31). Per salvaguardare quindi la vita di Cesare, Cicerone gli garantisce, come in Marc. 22, di rafforzare la sua guardia personale e di offrire sé stesso a sua difesa (Marc. 32). Si apre con il paragrafo 33 la conclusione dell’orazione, dove Cicerone ringrazia Cesare, come aveva fatto all’inizio del discorso, per la clementia mostrata nei confronti di Marco Claudio Marcello, il quale, nelle speranze di Cicerone, assurge a simbolo della salvezza generale di tutta la Res publica, una grazia, quella per l’amico fraterno dell’Arpinate, che rappresenta il coronamento di quella già concessa da Cesare a Cicerone (Marc. 34).
La Pro Marco Marcello oratio rappresenta con ogni probabilità uno dei tentativi di Cicerone di mantenere nei confronti di Cesare un certo margine, seppur minimo, di azione politica, in una situazione del tutto compromessa per la parte repubblicana costituita da Pompeo e dai pompeiani sconfitti prima a Farsalo il 9 agosto del 48 a.C. e poi a Tapso il 6 aprile del 46 a.C. L’ostinata opera dell’Arpinate in quei difficili mesi del 46 a.C. dopo il rientro di Cesare a Roma il 25 luglio, per far ritornare in patria una figura di primo piano della nobiltà romana e dell’opposizione a Cesare quale era Marco Claudio Marcello, e il tentativo, attraverso lo strumento retorico della laudatio, di impegnare Cesare di fronte al senato in un programma di riforme etiche e sociali, con la speranza di salvaguardare così, nonostante lo strapotere di Cesare, ciò che era rimasto della Res publica dopo la guerra civile, rappresentano alcune delle chiavi di lettura più importanti per comprendere il significato politico che sta alla base dell’orazione. Una gratiarum actio che non si può leggere limitandosi alla semplice lettura della “lode al dittatore”, ma che va collocata in un più complesso schema interpretativo, che non può non tenere conto dei mutati rapporti di forza dopo le grandi vittorie di Cesare a Farsalo e a Tapso e del tentativo di Cicerone di non essere definitivamente escluso ed emarginato dall’azione politica, nel caso in cui Cesare avesse voluto metter mano a riedificare la Res publica o quello che di essa rimaneva, se non da architectus almeno da faber come lo stesso
Cicerone aveva scritto da Roma a Varrone verso il 22 aprile del 46 a.C., ancor prima di sapere nei dettagli l’esito della battaglia di Tapso (fam. 9,2,4). [Fausto Pagnotta]
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